sabato 23 settembre 2023

Una lettura affatto tardiva

UNA LETTURA AFFATTO TARDIVA

Note sul libro di Sahra Wagenknecht “Contro la sinistra neoliberale”,

o meglio di quella parte che tratta del “ceto medio benestante e laureato”.


Stimolato da alcune prese di posizione di Sahra Wagenknecht nel dibattito che sta attraversando la Linke tedesca, leggo il suo libro “Contro la sinistra neoliberale”.1

Benché dalla prima edizione tedesca del 2021 siano trascorsi due anni densissimi, segnati dal culmine dell'emergenza Covid e dal divampare della guerra in Ucraina, – e fors'anche per questo –, il libro mantiene una forte presa sull'attualità. In particolare su alcune questioni che agitano la sinistra europea non “alla moda” e refrattaria al neoliberalismo.

Esse riguardano non solo il cambiamento climatico, per opporsi al quale le acclamate “misure verdi” del governo federale tedesco finiscono per abbattersi sui ceti medio-poveri e più poveri. Espulsi dalla gentrificazione delle grandi città ed impossibilitati a comprare le costose auto elettriche, per spostarsi e scaldarsi sono di fatto costretti ad usare i carburanti fossili ed a doversi sentire colpevoli pur subendone i rincari.

Sono questioni che attengono, piuttosto, al modo di pensare e rapportarsi della “sinistra neoliberale”: un abito politico-culturale che veste uno specifico essere sociale.

Sotto questo profilo, il titolo italiano perde qualcosa rispetto all'originale e più diretto Die Selbstgerechten, ovvero “I presuntuosi”. Nonostante suppongano di essere dotati di qualità dialogiche “aperte” e “tolleranti”, il loro atteggiamento mentale li porta a relazionarsi in modo marcatamente “illiberale”.

In ragione della loro appartenenza sociale, per Wagenknecht i presuntuosi non possono neppure essere definiti “di sinistra”, come ritengono di essere.

«Dell’ideologia di sinistra ha sempre fatto parte l’impegno soprattutto a favore di chi è in difficoltà e si vede negare dalla società un più elevato livello di istruzione, di benessere e migliori prospettive di crescita. Il liberalismo di sinistra, invece, ha la sua base sociale nel ceto medio benestante e laureato delle grandi città.»2

Tra parentesi devo constatare che, per quanto ci si affanni a salvare alcune parole dal loro uso “improprio” o “ingannevole”, esse sono oramai condannate a camminare sulle uova del fraintendimento semantico.

Fatto sta che si è verificato in Germania un fenomeno ben conosciuto da noi, in questi anni di emergenza pandemica e di esplosione della guerra in Ucraina. Il dibattito pubblico è stato invaso dal maccartismo della caccia alle streghe. Impossibile confrontarsi al plurale.

La specificità tutta tedesca consiste nell'adozione del medesimo stile da parte sia di Alternative für Deutschland (AfD), sia di quelli che Wagenknecht chiama “liberali di sinistra”.

«Chi si discosta dal canone dei loro precetti, appare agli occhi dei liberali di sinistra non semplicemente come un individuo che la pensa in modo diverso, ma come una persona cattiva, forse persino un nemico dell’umanità o addirittura un nazi3

«Se il politico di AfD Björn Höcke vorrebbe, senza tante cerimonie, «ausschwitzen» [verbo che, letteralmente, significa ‘espellere sudando’ ma foneticamente appare come la trasformazione in verbo del nome “Auschwitz”, N.d.T.] chi la pensa diversamente, a noi viene la pelle d’oca.»4

A questo proposito, colpisce un caso, citato anche nella Prefazione da Vladimiro Giacché:

«E quando alla fine del 2019 i giovani dei Fridays for Future, riunitisi in corteo a Lausitz per richiedere l’uscita dal carbone, si sono visti i circa mille abitanti del paese, probabilmente senza eccezione individui la cui esistenza dipende proprio dalla miniera di carbone, marciare contro intonando i canti dei minatori, li hanno intenzionalmente denominati nazi del carbone.»5

Si potrebbe definire disprezzo di classe. Questo genere di epiteti sono propagati dal mainstream mediatico. Si pensi all'accusa di “negazionista”, ripreso dal tentativo di negare lo sterminio nei campi di concentramento nazisti, indifferentemente rivolta, in nome di una infalsificabile “verità scientifica”, a tutti coloro che si sono opposti alla gestione politica del Covid o sollevano dubbi sulla prevalente derivazione antropica del cambiamento climatico.

Si tratta della forma espressiva di un nuovo essere sociale. Secondo l'Autrice il suo formarsi è dovuto all'ultima globalizzazione neo-liberista, nel corso di un processo di trasformazione di cui ripercorre puntualmente le tappe, ricordandovi il ruolo politico giocato dai partiti laburista britannico, socialdemocratico tedesco e socialista francese, a promuovere quello “spontaneo” insito nei meccanismi del capitale.

Wagenknecht sostiene che quella metamorfosi nei Paesi del capitalismo avanzato, transitato al post-industriale ed alla terziarizzazione, produsse una nuova appartenenza sociale: il “ceto medio benestante e laureato”, base del “liberalismo di sinistra”.

Questo ceto poté rientrare tra i vincitori, mentre ai vinti toccò, nel contesto deregolato di internazionalizzazione delle produzioni, la perdita delle posizioni acquisite dai Cinquanta ai Settanta, accompagnata dallo smarrimento in tutta la società dei valori fondanti del precedente patto di inclusione e convivenza sociale, particolarmente importante nella storia del secondo dopoguerra tedesco.

«Tra gli ambiti in cui a partire dagli anni Ottanta è spuntato un gran numero di posti di lavoro ben remunerati per chi ha una laurea rientra l’economia finanziaria (…). Negli anni il lavoro nelle banche di investimento è diventato tra le opzioni professionali più attraenti per laureati in matematica e fisica. Una crescita ancora più veloce la registra un settore che trent’anni fa neppure esisteva: quello dei servizi digitali. (…) Altri settori che hanno visto un particolare sviluppo sono quelli dei servizi legati alle aziende come il marketing, la pubblicità, la consulenza e l’attività legale. Anche qui sono stati creati diversi nuovi posti di lavoro per laureati in materie di comunicazione, cultura e intrattenimento.»6

Il nuovo ceto si è differenziato per formazione, attività, luogo di residenza ed atteggiamento, sia dal milieu borghese e piccolo-borghese che dalla classe operaia.

Tuttavia, Wagenknecht avverte (siamo nel 2021) che, ad eccezione dell'economia digitale, sta venendo meno la diffusione delle professioni ben remunerate per i laureati.

«E più l’espansione rallenta, più grande si fa la calca per accaparrarsi i pochi posti al sole ancora rimasti.»7

Tra gli stessi laureati si crea uno strato più basso. Nasce l'assillo di come garantire il trasferimento dello status acquisito ai propri figli, da parte di un ceto medio sì benestante, ma non ricco ed in grado di perpetuarsi per via ereditaria.

«La loro arma migliore per farlo è stata il ritorno del privilegio dell’istruzione. (…) Il nuovo privilegio dell’istruzione consiste nel fatto che oggi le professioni per laureati meglio pagate nel settore dei servizi richiedono capacità e qualifiche che non si possono ottenere seguendo il normale percorso di formazione pubblica.»8

Bisogna conoscere l'inglese al livello del madrelingua e sostenere lunghi tirocini gratuiti o quasi. Inoltre, servono i giusti “contatti” con la cerchia di quelli che contano.9

Nel contesto delineato si inserisce il crescente divario tra ottime e pessime scuole,10 mentre si diffonde il ricorso alle scuole private, nonché ad una formazione post-universitaria pagata all'estero.

Comunque persiste una tendenza di più lunga durata, statisticamente rilevata nella maggioranza dei Paesi del capitalismo avanzato. Dalle professioni addette ai media ed alla politica sono stati via via esclusi o ridotto al minimo i provenienti dalle classi subordinate.11

Consapevole che ogni classe per acquisire egemonia deve valersi di una grande narrazione, Wagenknecht si inoltra nell'analisi delle due narrazioni che hanno segnato il nostro tempo: il neoliberismo ed il liberalismo di sinistra.

Per brevità, tralascio l'analisi della narrazione neoliberista, piuttosto conosciuta ed in larga parte condivisibile, e mi concentro su quella del liberalismo di sinistra.

«A prima vista, la narrazione dei liberali di sinistra è l’opposto del programma dei neoliberisti. Invece di parlare di egoismo, successo e libero mercato, ci troviamo molta solidarietà, nonché etica, responsabilità, diritti universali, tutela delle minoranze, misure contro la discriminazione e rispetto. (…)

I liberali di sinistra si vantano di essere per la diversità, per l’apertura al mondo, per la modernità, per la tutela dell’ambiente, per la liberalità e la tolleranza. Tutto ciò che, secondo costoro, sta a destra va invece combattuto: nazionalismo, nostalgia del passato, provincialismo, razzismo, sessismo, omofobia, islamofobia.

La fede, la nazione e la patria sono, per i liberali di sinistra, emblemi di arretratezza. La normalità è considerata per nulla attraente, gli standard una limitazione, l’individualità e l’autorealizzazione, invece, sono sacre. Particolare importanza, nei dibattiti dei liberali di sinistra, rivestono i problemi delle origini, del genere e dell’orientamento sessuale, che sovrastano nettamente la discussione sui problemi socioeconomici.»12

In altri termini è rigettata ogni tradizione, rubricata in toto come “passatista” e negativa.

Come visto in precedenza, i liberali si sinistra assegnano suprema importanza al linguaggio, sino a pensare di cambiare il mondo con le parole e la regolamentazione della lingua. Emerge una convinzione più profonda, “decostruzionista” sul piano filosofico:

«(…) al di là della lingua, in pratica, non esiste alcun mondo reale a cui riferirsi.»13

Impossibile stabilire una distinzione tra vero e falso.

«Se, infatti, non esiste alcuna realtà al di fuori di quella costruita linguisticamente, anche la differenza tra vero e falso viene a perdere di senso. (…) Da questa corrente di pensiero, in seguito, è nata anche la teoria gender, in cui addirittura il genere sessuale veniva decostruito come “attribuzione forzosa” della “società eteronormativa” e l’affermazione delle differenze biologiche tra uomo e donna veniva spiegata come un atto di esercizio del potere discorsivo.»14

Di conseguenza:

«Ad acquisire valore in sé non è l’uguaglianza, ma la differenziazione e la disuguaglianza tra gli individui, un valore che poi si traduce nelle quote e nella diversity.»15

Inevitabile lo scivolamento verso una politica identitaria, la quale:

«Svia l’attenzione dalle strutture sociali e dai rapporti di proprietà per puntarla su specificità individuali come l’etnia, il colore della pelle o l’orientamento sessuale.»16

Wagenknecht acutamente osserva:

«È sconcertante vedere come i sostenitori della politica identitaria non siano per niente turbati dalla tradizione in cui si collocano tali tesi. Il fatto di definire gli individui in base al colore della pelle o alle loro origini (tra cui quelle etniche) non è una novità. Fin dall’inizio, anche se nella direzione opposta, ha rappresentato il modo di procedere dell’estrema destra e dell’ideologia razzista.»17

Eppure, quali sono le reali condizioni che accomunano le classi basse?

«La cruda verità è che i figli e i nipoti di immigrati provenienti dai paesi musulmani, gli omosessuali o le donne non hanno alcun interesse comune che vada oltre la parità legale di diritti e il generale divieto di discriminazione. Il camionista omosessuale, che ogni giorno macina centinaia e centinaia di chilometri in autostrada e ha paura che il dumping dei concorrenti provenienti dall’Europa dell’Est possa costargli una volta per tutte il lavoro, vive in un mondo del tutto diverso e, ovviamente, vede anche l’Unione Europea con occhi diversi rispetto allo studente omosessuale di scienze politiche i cui genitori benestanti gli hanno pagato un tirocinio a Bruxelles.»18

In buona sintesi:

«Il liberalismo di sinistra e la sua politica identitaria, che sollecita chiunque a definire la propria identità sulla base delle proprie origini, del colore della pelle, del sesso o delle inclinazioni sessuali, non si limita però a costruire interessi comuni dove non ce ne sono. Allo stesso tempo, infatti, crea spaccature proprio laddove sarebbe urgente e necessaria la solidarietà.»19

Di fronte al fallimento dell'integrazione, l'abbandono della solidarietà si traduce nella esaltazione del multiculturalismo e nella perdita del senso di appartenenza alla comunità nazionale, esistente su un delimitato territorio e su cui poggia lo Stato sociale.

«Non esiste più, nella narrazione dei liberali di sinistra, un interesse della collettività che vada al di là della somma degli interessi di tutte queste minoranze eterogenee, anzi, ogni appello al senso di appartenenza e di comunità all’interno dei confini di un paese appare come qualcosa di reazionario e di destra20

Cosa comporti, nella narrazione dei liberali di sinistra, sentirsi cosmopoliti cittadini del mondo è oggetto nel testo di una attenta disamina che lascio alla lettura del testo. Mi limito ad osservare che i riferimenti alla situazione tedesca possono trovare una “realtà aumentata” nell'esperienza italiana e passo direttamente al capitolo 9, ossia alla questione dello Stato nazionale.

«Che sia liberismo economico o liberalismo di sinistra poco importa: sul canto del cigno dello Stato nazionale c’è grande consenso tra le correnti politiche.»21

L'Autrice ritiene, invece, che l'idea dello Stato nazionale sia erroneamente ritenuta morta e possa avere un futuro. Direi che sono bastati due anni per “resuscitarla” pienamente.

«Il fondatore del Forum per l’economia di Davos, Klaus Schwab, con la sua affermazione “Gli Stati sovrani sono diventati superflui” aveva già anticipato nel 1999 questa tendenza. Nel 2010 il Forum, cui partecipano ogni anno i ricchi e i potenti della terra, ha presentato un progetto dal titolo Global Redesign Initiative, in cui questa cerchia di eletti spiega come intendono loro la visione futura del mondo: non saranno più gli Stati nazionali o la loro organizzazione, l’ONU, a occuparsi dei problemi globali, bensì “gruppi di stakeholder”, ovvero in prima linea ci saranno le multinazionali attive a livello mondiale e le ONG da esse finanziate. Quali interessi verranno garantiti dalle soluzioni trovate risulta abbastanza facile da intuire.»22

L'obiettivo è sottrarre dall'esterno sovranità allo Stato (perciò allo Stato sociale) ed alla democrazia, senza ledere il diritto di voto, ma svuotandola di effettivo potere, per conferirlo alla competenza professionale degli stakeholders23 transnazionali, controllati dai vertici della ricchezza mondiale.

Per parte mia, aggiungerei che si trattava di “tecnocrati”, ai quali era affidata la implementazione politica delle “inoppugnabili” verità teoriche: se economico-sociali, provenienti dai think tanks universalmente “accreditati”; se fisico-biologiche, prodotte dai laboratori scientifici finanziati ed indirizzati dalle multinazionali. Caduta la credibilità dei primi, dopo le numerose sconfessioni degli anni duemila, la preferenza è accordata alle seconde.

Per il liberalismo di sinistra lo Stato nazionale non solo è obsoleto, come se vivessimo già in un mondo transnazionale, ma potenzialmente aggressivo e guerrafondaio. Sicché le strutture democratiche nazionali, rese incapaci di agire dalla globalizzazione, dovrebbero slittare in capo a quelle transnazionali, come l'Unione europea.

È facile per Wagenknecht dimostrare che, in occasione della crisi bancaria e del Covid-19, sono stati gli Stati nazionali a mobilitare centinaia di miliardi per l'economia di lorsignori, mentre rimangono l'unica istanza per correggere gli esiti del mercato.

«Non si tratta dunque dell’incapacità di agire. Il vero problema è semmai come agiscono gli Stati nazionali.»24

Giunti a questo punto e per i temi su cui è incentrata e proiettata la mia lettura (il destino del ceto medio benestante e laureato), alla validazione del discorso della Wagenknecht serve qualche considerazione “a posteriori”, approfittando del vantaggio “maieutico” concessoci dal biennio trascorso dopo la pubblicazione del suo libro.

L'impatto con la realtà ha prodotto non solo grandi falle nella narrazione del liberalismo di sinistra, ma una crescente spaccatura in seno al “ceto medio benestante e laureato”.

Prendiamo la gestione politica dell'emergenza pandemica nel nostro Paese.

Abbiamo assistito ad un doppio rovesciamento, sia dal punto di vista della libertà individuale che da quella collettiva.

Allorché il governo dello Stato ha imposto, con il pass verde, l'obbligo di assunzione di un farmaco sperimentale, la sacralità dell'individuo e della sua soggettiva libertà di autodeterminazione è venuta meno. Improvvisamente - come in guerra - persino il corpo personale è diventato disponibile e violabile, pena il confinamento nel ghetto degli irresponsabili verso l'insieme della società. Al punto di esporre agli effetti avversi i bambini, i più giovani e le donne in gravidanza, o da auspicare, per chi si era rifiutato di porgere il braccio, di essere messo per ultimo nella fila dei curabili dal servizio sanitario nazionale.

Di contro, la protezione collettiva della salute è stato demandata alla somministrazione forzata di un prodotto dei laboratori delle multinazionali. Dopo aver scientemente boicottato qualsiasi cura subito possibile per imporre l'adozione unica emergenziale dei ritrovati delle multinazionali, il governo ha spacciato per “vaccino” un farmaco che in realtà non vaccinava affatto dal contagio, impedendo infine qualsiasi verifica di riscontro sui suoi reali effetti sulla salute dei costretti a porgere il braccio.

Da decenni la sanità pubblica veniva progressivamente distrutta per “mancanza di fondi” in rispetto delle “compatibilità di bilancio”, che invece si trovarono per riempire di sovraprofitti Big Pharma. Governava un ministro della Sanità tra i più a sinistra dei liberali di sinistra.

L'impatto con la realtà ha generato una prima divaricazione in seno al ceto medio sotto osservazione, tuttavia vissuto come autodifesa più individuale che collettiva. Salvo il confluire in alcune significative manifestazioni popolari di “dissenso”, non ha così potuto raggiungere una adeguata consapevolezza e compattezza politica.

Ancora non era finito lo scontro sulla gestione politica della pandemia, che un secondo terremoto ha investito il liberalismo di sinistra: lo scoppio della guerra in Ucraina. Il riscontro di realtà demolisce certezze consolidate ed investe la stabilità degli assetti sociali.

La narrazione di un'Europa territorio di pace e democrazia, che sebbene a piccoli passi acquisiva una sua autonomia sulla scena mondiale, è andata in frantumi. L'Unione europea si è mostrata in totale balia della strategia guerrafondaia di Usa e Nato – dei suoi costi e fallimenti -, che ha preordinato il sacrificio di centinaia di migliaia di ucraini (e di russi) ai propri fini espansivi, per distruggere la Federazione russa. Alla inevitabile constatazione della “guerra persa”, si aggiunge quella della condanna del vecchio continente al declino ed alla marginalità, a partire dall'economia tedesca, ex locomotiva d'Europa.

Le principali economie dell'Europa occidentale sono state separate dalla Russia. Ora gli Stati Uniti, neo-protezionisti, vogliono disaccoppiarle anche dalla Cina, segnando la crisi definitiva della globalizzazione neoliberale contemporanea, sulla quale in precedenza avevano eretto la pretesa del proprio dominio unipolare sul mondo.

Eppure, se è vero che la globalizzazione neo-liberale aveva generato il ceto medio dei benestanti e laureati, la sua crisi segna l'inizio del suo sfaldamento.

La “calca per accaparrarsi i pochi posti al sole” diventerà una mischia.

Non si tratta più del rallentamento dell'espansione avvertito prima dell'ultimo biennio. Ora incombe la “desertificazione produttiva”, causata da un lato dagli elevati costi energetici e, dall'altra, dalle politiche fiscali degli Stati Uniti, attrattive degli investimenti sul proprio territorio o nell'immediato intorno.

È contraddetta alla radice l'idea di una seconda fase del post-industriale,25 riservata al primo mondo (G7), ancora basata sulla obsoleta divisione internazionale del lavoro e sulla partecipazione a posizioni al vertice delle catene del valore.

Dovendo salire su un nuovo tornante della storia, si dovrà recuperare lo Stato nazionale, la cui sovranità diventa fattore necessario al dialogo con il multilateralismo emergente su scala mondiale, che lo presuppone. Dall'esercizio di sovranità nazionale dipenderà la fuoriuscita dalla terziarizzazione estrema e la ripresa sia del manifatturiero, sia dello Stato sociale nelle sue articolazioni più importanti. Da questi riassetti deriverà l'insieme dell'occupazione e, al suo interno, la dislocazione delle componenti della classe media.

Pensandosi “al sicuro”, la parte più alta del benestante ceto medio ha già fatto la sua scelta, allineata al grande capitale finanziario, agli indirizzi delle oligarchie dominanti l'Occidente collettivo ed alla pretesa di un mondo unipolare.

La sua parte destinata in maggioranza a venire declassificata, è frastornata, ancora assoggettata alla vecchia narrazione, e fatica ad associare se stessa ai perdenti della nuova metamorfosi in corso, che vengono ad aggiungersi a quelli della trascorsa. Crede ancora di vivere nel migliore dei mondi possibili e che, in fondo, sia meglio “stare con l'America che con la Russia”, come se questa fosse la reale scelta da compiere. A differenza della condizione sociale, l'orientamento politico non ha un destino assegnato.


NOTE

1 Sahra Wagenknecht, “Contro la sinistra neoliberale”, Fazi Editore, 2022 (2021).

2 Wagenknecht, Sahra. Ibidem (p.20). Edizione del Kindle.

3 Wagenknecht, Sahra. Ibidem (p.41). Edizione del Kindle.

4 Wagenknecht, Sahra. Ibidem (p.19). Edizione del Kindle.

5 Wagenknecht, Sahra. Ibidem, (pp.42-43). Edizione del Kindle.

6 Wagenknecht, Sahra. Ibidem (pp.100-101). Edizione del Kindle.

7 Wagenknecht, Sahra. Ibidem (p.108). Edizione del Kindle.

8 Wagenknecht, Sahra. Ibidem (pp.110-111). Edizione del Kindle.

9 Per la Germania forse è una novità, ma non per l'Italia, dove la “meritocrazia” non ha mai preso realmente il sopravvento. Sui meccanismi di selezione meritocratica in sé noto un limite critico dell'Autrice, proprio nel momento in cui svela come quelli tradizionali siano superati.

10 In Italia sempre più dislocate secondo gentrificazione.

11 Al fenomeno ha fortemente contribuito lo scioglimento dei partiti tradizionali di sinistra.

12 Wagenknecht, Sahra. Ibidem (pp. 124-125). Edizione del Kindle.

13 Wagenknecht, Sahra. Ibidem (p. 125). Edizione del Kindle.

14 Wagenknecht, Sahra. Ibidem (p. 129). Edizione del Kindle.

15 Wagenknecht, Sahra. Ibidem (p. 132). Edizione del Kindle.

16 Wagenknecht, Sahra. Ibidem (p. 133). Edizione del Kindle.

17 Wagenknecht, Sahra. Ibidem (p. 134). Edizione del Kindle.

18 Wagenknecht, Sahra. Ibidem (p. 142). Edizione del Kindle.

19 Wagenknecht, Sahra. Ibidem (p. 143). Edizione del Kindle.

20 Wagenknecht, Sahra. Ibidem (p. 156). Edizione del Kindle.

21 Wagenknecht, Sahra. Ibidem (p. 284). Edizione del Kindle.

22 Wagenknecht, Sahra. Ibidem (p. 284). Edizione del Kindle.

23 Wikipedia: stakeholders o portatore di interesse, genericamente qualsiasi soggetto o gruppo coinvolto in una qualsiasi iniziativa economica.

24 Wagenknecht, Sahra. Ibidem (p. 289). Edizione del Kindle.

25 Pensata nelle due versioni: quella trans-umana di Klaus Schwab (“La quarta rivoluzione industriale”, Franco Angeli, 2016) e quella neo-umanista, proposta in Italia dal compianto prof. Domenico De Masi (“Smart working”, Marsilio, 2020). 

giovedì 31 agosto 2023

Conseguenze di una subalternità velleitaria



 Governo Meloni

CONSEGUENZE di una

SUBALTERNITÀ VELLEITARIA


All'opinione pubblica il governo Meloni presenta la propria politica estera come la dimostrazione di quanto sia premiante, per l'Italia, essere fedele alleato degli Stati Uniti ed “affidabile” partner nell'attuazione della strategia di blocco militare della Nato.

In tal modo avrebbe ottenuto una migliore “difesa dell'interesse nazionale”.

Presa per mano

Alla Casa Bianca come al G7 di Hiroshima.


Presa per mano da Joe Biden, Giorgia Meloni a Washington ha assicurato:

  • il pieno sostegno italiano all'Ucraina di Zelensky ed al prolungamento della guerra e delle sanzioni contro la Russia, secondo modi e tempi stabiliti dalla Casa Bianca;
  • l'impegno militare diretto dell'Italia nelle acque e nei cieli attorno a Taiwan,1 in appoggio alla strategia statunitense che si predispone alla resa dei conti finale con la Cina, considerata il nemico numero 1.
    Ottenendo in cambio:
  • il riconoscimento di affidabile referente locale della Nato nel Mediterraneo, in particolare verso l'Africa settentrionale ed occidentale;
  • l'avallo statunitense al cosiddetto Piano Mattei, centrato sull'energia, col proposito di coinvolgere i Paesi nordafricani e della fascia subsahariana anche nel controllo dei flussi migratori “irregolari”;
  • l'attribuzione, nel piano di ricostruzione postbellico, dell'Ucraina occidentale.

Su un campo minato

In seguito al fallimento della controffensiva ucraina, dai vertici della Nato è stata avanzata un'ipotesi di negoziato: in cambio di alcune “concessioni territoriali”, la Russia dovrebbe dare il suo placet al passaggio del resto dell'Ucraina nella Nato.

Molti hanno plaudito come fosse una realistica base per avviare una trattativa di pace, benché l'allargamento della Nato all'Ucraina sia notoriamente ritenuta dalla Russia una minaccia esistenziale, dunque inaccettabile, neppure se all'offerta della Crimea si aggiungesse quella delle regioni del Donbass, peraltro già in mano russa.

Pertanto, quali sono i veri motivi della avance di Stian Jenssen, capo di gabinetto del segretario generale Stoltenberg?

La controparte russa è reduce da numerose esperienze che la inducono a diffidare di accordi sulla carta, quando non accompagnati da fatti concreti a garanzia della loro esecuzione. Cito solo quelli più recenti: gli accordi di Minsk I e II, usati come espedienti per armare Kiev; l'accordo di Ankara dell'aprile 2022, sconfessato dopo il ritiro dell'esercito russo dalle porte di Kiev; l'accordo umanitario su grani e fertilizzanti, non rispettato solo per l'esportazione di quelli russi, mentre i grani ucraini invadevano i mercati continentali, abbattevano i prezzi a danno delle agricolture concorrenti (polacche, magiare e rumene) e finivano accaparrati al 97% da più facoltosi Paesi europei.

È impensabile che Putin sia disponibile ad intavolare una trattativa per consentire a Kiev ed alla Nato di guadagnare tempo e riprendersi dalla precaria condizione militare e politica in cui oggi versa. Sicché la mossa dei vertici atlantici è indirizzata ad altro.

Va gestita l'opinione pubblica occidentale, già alquanto dubbiosa per non dire resistente al racconto dei governi e dei ripetitori mediatici, sia al cospetto dell'innegabile “evidenza empirica” (fallimento militare e della politica di isolamento e dissanguamento della Russia), sia in vista di possibili nuovi svolgimenti.

Si dà risalto alle critiche di importanti esponenti ed analisti militari che accusano lo stato maggiore ucraino di “incapacità”, per non avere seguito le metodologie e le direttive della Nato, scaricandola della responsabilità degli insuccessi sul campo di battaglia. Così si prospetta una giubilazione del comando militare che può coinvolgere lo stesso Zelensky.

Non è in discussione il prolungamento della “guerra contro l'aggressione” e la consegna degli F16, che però non potranno entrare in azione prima dell'autunno-inverno e non sono in grado di rovesciare l'andamento del conflitto. Nè, congiuntamente, si rinuncia a disaccoppiare l'Europa dalla Russia e mantenere sotto scacco permanente la Germania, nella cui recessione è trascinata tutta l'eurozona.

Tantomeno è ammesso il proprio fiasco militare e politico (attribuito a Kiev), che mina l'intera strategia dell'amministrazione Biden, proprio in prossimità delle elezioni presidenziali.

Piuttosto, mostrando realismo, elasticità e disponibilità alla trattativa, ci si dispone a fronteggiare i casi peggiori, tra i quali quello del collasso del regime di Kiev, rubricato ora tra le congetture fantapolitiche.

In tal caso le “concessioni territoriali” non sarebbero negoziate ma de facto. Dopo aver combattuto la Russia fino all'ultimo ucraino e nell'impossibilità di includere tutta l'Ucraina, si passerebbe al suo smembramento,2 mettendo “in sicurezza” almeno la sua parte occidentale.3 Compito quest'ultimo riservato alla Polonia, che eviterebbe alla Nato di entrare direttamente in guerra4 e le permetterebbe di sottrarre “all'espansionismo russo”, occupandoli, gli oblasti ai propri confini, già polacchi prima del secondo conflitto mondiale.

In tale contesto paragonare il ruolo dell'Italia a quello della Polonia, come ha fatto il ministro della Difesa Guido Crosetto, è vanto avventurista dal “sen fuggito”. Tanto più che una funzione analoga a quella di Varsavia, sul fianco nord-orientale della Nato, è stata assunta da Roma sul fianco meridionale dell'alleanza.

In continuità con la linea tracciata da Draghi, sulla quale si sono compromessi anche i partiti partecipanti al suo esecutivo ed oggi fuori dal governo, la premier Meloni ha trascinato l'Italia su un terreno alquanto minato.

L'art. 11 della nostra Costituzione è stato rinnegato, al pari di qualsiasi iniziativa diplomatica italiana o di appoggio a proposte altrui.

Quella cinese, articolata in 12 punti e nel pieno rispetto del diritto internazionale, instradava le parti su un percorso che, a partire dall'immediato cessate il fuoco, portava alla definizione concertata di un sistema di garanzie per la reciproca sicurezza in Europa, da Est ad Ovest, il solo in grado di garantire una pace stabile.

La premier Meloni ci ha invece consegnato a qualsiasi decisione proveniente da Washington, anche la più scellerata.

Postura gregaria

Nel maggiore partito al governo domina l'inebriata esaltazione della postura assunta dall'Italia. Il guadagnato innalzamento di status (Italia “protagonista”) può giusto soddisfare un ceto politico votato a portare la borraccia.

Postura resa ancora più subalterna dall'impegno preso alla Casa Bianca di disdire il Memorandum con la Cina sulla Via della Seta, a suo tempo firmato dal primo governo Conte.5 Impegno avallato da Romano Prodi, a testimoniare che il centro-destra al governo fa quel che al suo posto farebbe il centro-sinistra.

Poiché anche l'amministrazione Biden è protesa a non entrare per ora in collisione con la Cina, sarà consentito alla premier Meloni nella prossima visita a Pechino di cercare una mediazione, che non affossi del tutto le nostre relazioni economiche e commerciali con il “Dragone”, almeno fino a quando da Washington non dovesse arrivare un ordine belligerante sullo scacchiere attorno a Taiwan.

La stessa postura gregaria è rintracciabile nella corsa al riarmo, connessa all'adesione alla strategia guerrafondaia di blocco militarizzato.6

In un'audizione parlamentare a gennaio, Guido Crosetto ha sostenuto:

«L'aiuto che abbiamo dato in questi mesi all'Ucraina ci impone di ripristinare le scorte che servono per la difesa nazionale.»

Eppure Giorgia Meloni aveva affermato che dare all'Ucraina nostre armi era senza costi. Veniamo ora a conoscenza dell'esistenza di costi di “ripristino”, tra i quali rientra l'acquisto di numerosi (da 125 a 200) Leopard 2 A8 dall'azienda tedesca Krauss-Maffei Wegmann.

L'etichetta di “Piano Mattei”

Riferita alla politica energetica del governo italiano, avrà fatto beffardamente sorridere gli interlocutori nord-americani, specialisti in questo genere di contraffazione semantica.

Non possono essersi scordati del fatto che Enrico Mattei, proprio a causa della sua intraprendenza a capo dell'Eni, in comunanza d'interesse con i Paesi africani ed in contrasto con le “sette sorelle” anglo-americane, ebbe un “incidente” mortale nei cieli di Bescapé.

Per gli Stati Uniti è assai vantaggioso incoraggiare l'aspirazione della Meloni di fare dell'Italia il futuro hub energetico dell'Europa dal Mediterraneo, mentre nel concreto immediato si assicurano, al triplo dei prezzi russi del gas bloccato dalle sanzioni, le forniture al nostro Paese del loro gas da scisti bituminosi. Gas naturale liquido (Gnl) che implica l'uso di rigassificatori, vere e proprie bombe ambientali sul territorio della Nazione.

Per Meloni la furbata dell'etichetta può essere buona per il marketing finto sovranista del governo, ma non può trarre in inganno i Paesi ai quali, insieme alla Ue, si rivolge, pretendendo credibilità per il solo fatto di loro offrire rapporti da “pari a pari” ed improntati ad “un modello virtuoso di collaborazione”.

Decenni di belle parole hanno ammantato la predazione estrattiva delle multinazionali occidentali, le pratiche neo-coloniali ed imperialiste, non solo della Francia.

Nessuna meraviglia se, come ricorda la ex diplomatica Elena Basile:7

«decenni di politica mediterranea (dal processo di Barcellona 1995 all'Upm 2008) siano falliti nonostante gli sforzi di partnership egualitaria, di codecisione, di approccio olistico e non settoriale.»

Mentre si sta dalla parte del neo-colonialismo, reiterare il falso storico degli “italiani brava gente” non può nascondere il contrasto radicale con l'interesse dei Paesi africani alla ricerca di un proprio sviluppo autonomo, non a caso attratti dal multilateralismo.

Quarte sponde cercasi

Mancano solide quarte sponde per realizzare l'hub energetico del cosiddetto Piano Mattei, di cui manca un documento pubblico sul quale valutare l'azione di governo.

L'Algeria, sulla quale pare imperniato il Piano, ha presentato una richiesta ufficiale di entrare tra i Brics+6,8 un concerto economico alternativo al G7. Il presidente Abdelmadjid, al Forum sull'Economia di San Pietroburgo, ha definito Putin un “amico dell'umanità”. Algeri come è attestato dalla sua posizione sulle vicende del Niger,9 non è disponibile a sottostare alle mire dell'”Occidente collettivo”.

È contraddittorio assumersi un ruolo di responsabilità sul fianco Sud della Nato, e, al contempo, proporsi come partner “alla pari” con l'Algeria per realizzare, insieme alla Germania, il progetto del Piano Mattei del SouthH2 Corridor

«un gasdotto di 3.300 km che unirà il Nord Africa al continente europeo per il trasporto di idrogeno prodotto in Nord Africa, passando attraverso Italia, Austria e Germania. (…) che dovrebbe essere pronto nel 2030.»10

Nell'articolo sopra citato, ciò che entusiasma Sergio Giraldo su 'La Verità' è la “duplice valenza” della pipeline, capace di trasportare gas, in attesa dell'idrogeno, per la cui produzione sono al momento disponibili soluzioni o molto costose o molto impattanti per l'ambiente. Davvero fatidico l'anno 2030!

Oltre ad essere territorio di transito energetico dall'Algeria, la Tunisia per Roma riveste particolare importanza, giacché dalle sue coste partono gran parte dei migranti che sbarcano sulle nostre, molti provenienti dall'Africa Occidentale, oggi al centro di una nuova crisi internazionale. In forti difficoltà economiche, ha accettato i pochi fondi offerti dall'Ue (100 milioni di euro) per fare da “filtro” verso gli immigrati “irregolari”, ma è restia ad accogliere quelli collegati del Fondo monetario internazionale (1,9 miliardi di dollari), perché vincolati all'attuazione di “riforme di struttura” lacrime e sangue, tipiche del Washington consensus.

Rispetto ai problemi del Paese africano ed alle “riforme” del Fmi, Italia e Francia11 pensano solo di diluire l'amara medicina, piuttosto che rinunciare alla solita cura, mentre gli “sforzi congiunti” non hanno minimamente contribuito a sbloccare la situazione in Libia,12 precipitata nella divisione attuale dalla consorteria (compresa l'Italia) che ha rovesciato Mu'ammar Gheddafi.

Sul versante orientale del Mediterraneo da tempo la Turchia si è proposta al ruolo di hub energetico verso l'Europa a cui ora mira l'Italia, predisponendo quattro linee nazionali di rifornimento, che coinvolgono Russia, Iran, Turkmenistan e, tramite la Tracia, la Bulgaria.13 Raggiungere un accordo con la Turchia significa rimettere in gioco Paesi o oggetto delle sanzioni o che non le hanno condivise.

Meloni sembra ignorare i forti cambiamenti in corso in tutto il Medio Oriente e nei rapporti internazionali, portati dal riposizionamento dell'Arabia Saudita, dopo il ristabilimento delle relazioni con l'Iran, mediato dalla Cina, e dall'adesione della Russia all'Organizzazione dei Paesi esportatori di petrolio (Opec).

Nel frattempo l'Egitto è entrato tra i Brics.

Complicazioni balcaniche

A fine maggio è riemersa la irrisolta questione del Kosovo.

A compimento della voluta, anche dall'Italia, disgregazione della Jugoslavia, gli Stati Uniti hanno raggiunto l'obiettivo di presidiare militarmente una possibile area di transito energetico dalla Russia verso l'Europa. L'intervento in guerra della Nato, volto a separare il Kosovo dalla Serbia, legata alla Russia, a questo obiettivo mirava. Oggi, a guardia dei Balcani e dell'Est Mediterraneo, c'è la grande base militare di Camp Bondsteel.

Dopo la “guerra umanitaria” del democratico Clinton, senza mandato Onu ed a cui si prestò il governo D'Alema, nacque un piccolo Stato vassallo degli Stati Uniti, con la presenza di una forza Nato di interposizione (Kfor) tra le due etnie in contrasto, serba ed albanese, su mandato internazionale.

Nel corso di due decenni l'Italia ha sviluppato forti relazioni economiche e commerciali con la Serbia, divenendovi il Paese con il più elevato stock di investimenti diretti.

Il governo di Pristina, che ha provocato i recenti disordini in cui sono rimasti feriti dei militari italiani ed ungheresi del Kfor, non può essersi mosso in modo autonomo dal comando statunitense, benché Washington cerchi di nascondere la mano che ha lanciato il sasso, per atteggiarsi poi a pacificatore sopra le parti.

Qualora il governo di Belgrado fosse costretto ad intervenire in protezione della minoranza serba, la Nato non esiterebbe a rispondere militarmente,14 coinvolgendoci direttamente.

Oneri in cambio di onori

Sposare la strategia atlantista a tutto campo, assumersi responsabilità sul fianco Sud della Nato ed al contempo ottenere “credibilità” dai Paesi africani del Mediterraneo e sub-sahariani, attestano una sostanziale mancanza di realismo. Mancanza che sfocia nel velleitarismo politico, sia se si aspira a fare da hub energetico, sia se alla pretesa di instaurare nuovi rapporti economici si pensa di collegare il controllo dei flussi migratori “irregolari”.

Ne sono la riprova le reazioni alla crisi nigerina. L'angelo della morte, alias Victoria Nuland,15 sottosegretaria di Stato per gli affari politici degli Stati Uniti, ha condotto una ricognizione. Rientra nel suo metodo spingere alla guerra l'Ecowas16 contro la “illegale giunta golpista” e mettere africani contro africani, ma gli sfavorevoli rapporti di forza militare sul terreno lo sconsiglierebbero. Almeno per il momento. Come è sconsigliabile rinunciare ad un'occasione per indebolire la Francia, sempre sospettata di “neo-gaullismo”.

Dal canto suo Roma si è subito detta d'accordo con Washington nel seguire la via diplomatica per ristabilire la “legalità costituzionale” in Niger, mentre la Francia, la principale imputata di neo-colonialismo nell'area sub-sahariana, morde il freno.

Poco prima della visita della premier Meloni negli Stati Uniti, si erano alzati peana all'asse Roma-Washington, giacché la rivista 'The national interest', di cui è presidente onorario Henry Kissinger, lodava la expertise italiana sullo Spazio, invitandola a seguire la linea Draghi per una maggiore cooperazione, specialmente nel controllo satellitare in Maghreb e Sahel, collegato all'attività militare.17

Appena qualche giorno dopo i colloqui della premier Meloni con Biden e Kissinger, il solito Claudio Antonelli dalle colonne di 'La Verità', strenua sostenitrice delle iniziative “di buon senso” della Meloni in senso anti-cinese, sottolineava che:

«L'alleanza con gli Stati Uniti si spinge un po' più in là, fino a lambire la Cina e tutta la zona attorno a Taiwan.»

A proposito del Mediterraneo, aggiungeva:

«gli Stati Uniti hanno “preso atto del piano Mattei del governo italiano sull'Africa”, ovviamente, al di là delle parole retoriche e un po' ampollose si legge il chiaro messaggio di affidamento. Affidamento nel senso che gli Usa sembrano darci onori e oneri. Basta vedere quanto sta accadendo in queste ore con il colpo di Stato in Niger. La Francia è ormai fuori da tutto il Sahel e qualcuno dovrà prendere il suo posto. Altrimenti i buchi saranno riempiti da russi, cinesi o se va meglio dai sauditi. (…) Per il premier è un “errore fatale”, in politica estera, “non vedere tutta la scacchiera”, aggiungendo di “aver trovato condivisione e voglia di collaborare al nostro piano Mattei per l'Africa”. A questo punto e con il termine della pausa di Ferragosto sarà importante entrare nella scacchiera con tutti e due i piedi.»18

Intervistato sempre da 'La Verità', Germano Dottori, analista di 'Limes', dopo aver inquadrato il Mediterraneo nella geo-politica mondiale, ha affermato:

«Fatichiamo a comprendere un dato cruciale di realtà: potremmo un giorno avere nemici, a prescindere dal carattere pacifico della nostra politica estera che forse non basterà più a proteggere i nostri interessi.»19

Onori ed oneri, potremmo avere dei nemici … Quali sarebbero i “nostri interessi” da proteggere in modo non pacifico?

La scelta

La narrazione che, in forza dell'ultima ondata di globalizzazione neo-liberale, raffigurava un mondo oramai transnazionale e lo Stato nazionale come obsoleto, non regge più al confronto con i fatti in rapido svolgimento.

In questo nuovo contesto storico di grande trasformazione dei rapporti internazionali, la scelta dirimente in capo ad ogni Stato è se associarsi al continuo ricorso alla guerra voluta dagli Stati Uniti, alla vana ricerca di una via d'uscita alla decadenza del proprio dominio unipolare, oppure aderire ad una strategia di pace levatrice di un nuovo ordine mondiale multilaterale, più democratico e favorevole allo sviluppo umano autonomo di tutti i Paesi.

Dopo aver guadagnato consensi su posizioni “sovraniste” e “populiste”, la premier Meloni già durante l'ultima campagna elettorale aveva invertito la rotta.

Pensando di “durare”, ha preferito agli interessi nazionali, intesi come interessi della stragrande maggioranza, la piena inclusione nella classe dirigente politica che, nell'alternanza bipolare al governo, da decenni opera per conto degli interessi del capitalismo finanziario italiano, senza più territorio né patria, accorpato a quello dei G7.

Identificando i nostri interessi con quelli degli Stati Uniti, siamo sempre più direttamente trascinati nei loro intrighi ed avventure belliche. Con dure conseguenze sul piano interno: la rinuncia all'esercizio della sovranità democratica nazionale è pagata da subito dalle classi sociali che vivono del proprio lavoro.

Per reggere la prova non basteranno al governo Meloni il finto sovranismo, il velleitarismo di status protagonista ed il ricorso alle etichette marketing del cosiddetto Piano Mattei, che nascondono la mancanza di una reale volontà di dialogo nel reciproco interesse, tra Stati riconosciuti nella loro sovranità, mediterranei e non.

La ribadita subalternità conduce al generale declino del Paese ed al rischio di coinvolgimento bellico non solo “indiretto”.

Si staglia all'orizzonte un futuro pericoloso per la nostra stessa vita, da difendere palmo a palmo, a partire dalle condizioni in cui viene sempre più precipitato il nostro quotidiano.


Note

1 La teoria delle “due Cine”, ritirata fuori dal cassetto della guerra fredda dagli Stati Uniti, è avversata dai partiti (tra i quali lo storico Kuomintang) che, secondo i sondaggi sulle prossime elezioni presidenziali del 13 gennaio 2024, sono in vantaggio rispetto al Partito Democratico Progressista, oggi al governo dell'isola e favorevole alla rottura di Taiwan con la Cina.

2 Una sorta di “cannibalizzazione”, qualora anche Ungheria e Romania decidessero di allargare i propri confini ai territori abitati dalle loro minoranze nazionali, assai maltrattate da Kiev.

3 La cui ricostruzione, come prima detto, è stata affidata all'Italia.

4 Attenendosi all'articolo 5 del suo Trattato istitutivo (articolo detto “difensivo”, giacché prevede l'attivazione della difesa comune solo in caso di attacco esterno ad uno Stato membro dell'alleanza) la Nato si limiterebbe a garantire ai polacchi il supporto ora dato a Kiev.

5 Con la Lega non solo al governo, ma attivamente coinvolta alla sua stesura.

6 Sul tema vedi “Due strategie”, https://mega.nz/file/bB5DTCKS#_qnKt_cgW9k4SMKwvsK7xAz_Hm6Z8NZSy1mnTTgxKbk.

7 Elena Basile,”Piano Mattei, sovranisti finti e altre prese in giro”, Il Fatto Quotidiano, 2 agosto 2023.

8 Dal 2024 ai Brics si aggiungono: Argentina, Egitto, Etiopia, Iran, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti. L'effettiva adesione dell'Argentina è condizionata dall'esito delle prossime elezioni presidenziali.

9 Il governo algerino ha reso noto che un intervento armato negli affari interni del Niger è considerato una minaccia per la stessa Algeria.

10 Sergio Giraldo, “Il gasdotto dall'Africa un affare per l'Italia. Saremo l'hub dell'Ue”, La Verità, 12 giugno 2023.

11 Claudio Antonelli, “Francia e Italia in pressing sulla Libia per accelerare il ritorno alle elezioni”, La Verità, 22/6/2023.

12 C'è che paventa che la Cina possa riuscire laddove l'Italia ha fallito. Stefano Graziosi, “Tripoli flirta col Dragone: nuovi guai per Roma e Nato”, La Verità, 29 agosto 2023.

13 https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/turchia-nuovo-hub-energetico-nel-mediterraneo-36802

14 Come afferma Fabio Mini, “La Nato nei Balcani ha sbagliato tutto, ma ora deve restare”, Il Fatto Quotidiano, 1° giugno 2023.

15 La Nuland, protagonista sia del colpo di Stato in Ucraina nel 2014, sia della divisione del Sudan, è ai vertici del partito “dem-neocon” Usa, che trasversalmente unisce parte dei democratici e dei repubblicani.

16 Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale.

17 Claudio Antonelli, “Gli Usa ci tendono la mano sullo Spazio”, La Verità, 21 luglio 2023.

18 Claudio Antonelli, “Tra Italia e Usa si apre il dossier indopacifico”, La Verità, 29 luglio 2023.

19 Intervista di Fabio Dragoni a Germano Dottori, “Gli Usa stanchi della guerra. Non cercano il crollo di Putin”, La Verità, 24 luglio 2023.